Il romanzo "l'Isola della Carne" è un'ucronia distopica in cui dei naufraghi del periodo vittoriano si trovano a precipitare in un'isola abitata da una popolazione di indigeni altamente civilizzata e avanzata. Lo scontro tra le due culture porta subito a dibattiti sulla religione e sulla politica, rivelando come la civiltà degli isolani sia basata su un feroce collettivismo a stampo socialista in cui tutto è messo in comune. Ho utilizzato il termine "feroce" perché alla base dell'approvvigionamento dell'intera isola vi è la carne umana: la cultura degli isolani, basata sul "sacrificio", spinge tutti gli isolani a sacrificarsi per il bene comune in modo volontario. Si tratta infatti di una società in cui l'individuo non esiste ed è considerato alla pari di una blasfemia, in cui le donne sono costrette a perpetue gravidanze per rifornire il paese di carne e in cui per l'intera isola sono installati degli allevamenti in cui il bestiame è l'uomo ed in cui vengono applicati protocolli di condizionamento mentale fin dalla nascita ai bambini per accettare di sacrificarsi in ogni istante in base alle richieste di carne. Il romanzo nonostante presenti una trama molto cruda e molto vicina al genere dell'horror contiene anche delle riflessioni filosofiche: citato indirettamente il panopticon foucaultiano, il rapporto guerra-politica di Clausewitz, la questione dell'esistenza politica di un popolo di Carl Schmitt, l'importanza della nozione di Stato per la genesi della storia (Hegel), giusto per riportare alcuni esempi. Non mancano anche gli spunti scientifici, in quanto le vicende narrate nel libro sono ispirate alla teoria dell'identità sociale di Tajfel e alla categorizzazione del sé di Turner. Ma, ovviamente, ampio respiro è lasciato alle questioni esistenziali. Che significa essere uomo quando l'uomo è equiparato al pesce pescato nella mattinata e sventrato con la stessa facilità? Che rimane di personale, di individuale, quando la società reclama come suo proprio persino il tuo corpo?In un mondo in cui tutto è lastricato di sangue e in cui la violenza è ordinaria quanto lo è per noi il lavoro, quando la violenza diventa essa stessa il lavoro, che ne resta dell'umanità?Ho immaginato il mondo dell'olocausto continuo, in cui una società, presa da un fazioso collettivismo scellerato, squarta adolescenti, bolle in pentola neonati vivi e soprattutto considera tutto ciò come una forma di cultura superiore rispetto a quella occidentale, perché, come loro stessi diranno nel romanzo, si tratterà di fare dell'uomo l'utile dell'uomo portando l'umanità stessa a concepirsi come il più grande mezzo per l'umanità. In questa circolarità paradossale si ambienterà tutta la storia e avranno vita dei personaggi che difendono la propria provenienza (Inghilterra e America) e i valori con cui sono cresciuti, fino almeno fino a quando l'oculata propaganda degli isolani non glieli avrà strappati via pezzo dopo pezzo a suon di bizzarre torture...