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Quelle dissezioni anatomiche congetturali che in tante guise, per tanto tempo si fecero, e si faranno ancora da filologi o grammatici, classici o no, dei poemi omerici e d'altre antiche epopee nazionali, partono da un principio astratto generale che è assolutamente vero e da un modo d'intenderlo come fatto concreto, che è immaginario e indimostrato. Il principio vero e indiscutibile è quello che dalla fine del secolo passato in poi distingue dai poemi d'artificio personale e dotto nati in tempi di scuola e di teoria, quali l'Eneide, la Gerusalemme e simili, quei poemi che appartengono ad un periodo di produzione epica spontanea, nel quale i cantori popolari hanno elaborato numerosi canti epici di minore o di piccola estensione; e questi ultimi poemi si distinguono col titolo di popolari o nazionali, non solo per il soggetto, per il sentimento, per l'uso loro, ma anche e principalmente perchè, naturale, spontanea, collettiva, impersonale, popolare e quindi nazionale è nelle sue origini, nei suoi sviluppi la poesia da cui essi risultano. Il gratuito modo d'intendere nel fatto tal principio e tal definizione di quei poemi consiste nel considerarli come non possibilmente opera di un poeta ciascuno, ma composti da canti minori già esistenti e messi assieme sia da uno in una volta, sia da più d'uno successivamente fino alla definitiva redazione; e questo mettere assieme viene immaginato come un semplice cucire senza alcun impasto, talchè il filologo critico col suo speciale acume e con l'uso di certi ordigni o criteri suoi, facilmente possa arrivare a riconoscere le commettiture e ritrovare i canti dai quali il poema fu composto. Con tal preconcetto in mente, si procedette all'anatomia di quei poemi; da Lachmann in poi, non si cessò di farlo, nè pare che in certe scuole si accenni a voler cessare prossimamente, quantunque, anzi appunto perchè a positivi, soddisfacenti, concordi risultati non si arrivò mai finora. Questa irrequieta opera analitica, che da tanto tempo, impaziente ma non convinta della sua sterilità, va innanzi facendo, disfacendo e rifacendo, che per la sua poca solidità di base, per la insufficienza e quindi abusivo impiego dei suoi criteri è condannata a rimanere sterile, stanca ormai e nausea. Chi la studia osserva spesso con meraviglia a qual grado di miopia intellettuale possa condurre la soverchia, esclusiva abitudine dell'analisi, come ne risulti una specie di uomo-microscopio che è capace di vedere atomi, molecole, cellule, non i corpi e le totalità organiche, che sa scorgere la paglia e vederla molto ingrandita, ma la trave non vede e quel ch'essa valga non sente. Così, malgrado questo lavoro mandato innanzi con una pertinacia degna di miglior causa, la così detta Questione Omerica, non solo è rimasta viva, ma si è anche allargata divenendo questione circa le origini delle grandi epopee nazionali. Il principio generale non si discute, nè è discutibile; che nel periodo della produzione epica, prima, delle grandi composizioni la materia epica sia dai cantori popolari prodotta ed elaborata in minori canti, nessuno può negarlo e i fatti lo provano. Ma ciò che si cerca ancora è in qual rapporto stiano i grandi poemi coi canti che li precedettero o di mezzo ai quali nacquero, se questo sia un rapporto meccanico, quello di una sintesi materiale di quei canti coi quali quella produzione poetica s'intenderebbe chiusa, o un rapporto organico, quello cioè di una nuova e più alta fase di quella poesia, organicamente sviluppantesi dall'antecedente, per cui essa arriva a concepimenti più alti, più larghi e complessi e ad uno stile nuovo a questi proporzionato. Lo studio della tradizione manoscritta non ha dato lume per tal quesito. Per i poemi romani e germanici del medio evo essa ha invero mostrato considerevoli varietà di redazioni, che rappresentano le vicissitudini dei poemi nell'uso loro popolare e giustificano quindi l'opera di chi di mezzo a quelle varietà cerca la prim